L'insostenibile fascino di una recensione retrò.
Titolo: Bronson
Id., Regno Unito, 2008
Cast: Tom Hardy, Matt King, Amanda Burton.
Sceneggiatura: Brock Norman Brock e Nicolas Winding Refn.
Regia: Nicolas Winding Refn.
Durata: 92'
Vera storia di Michael Gordon Peterson (Tom Hardy) giovane cresciuto in un ambiente borghese, in una famiglia normale, ma con una malsana passione per la violenza. Questa sua "passione" lo porterà ad essere il più temibile criminale britannico con il nome d'arte di Charles Bronson, arrivando a scontare 35 anni di galera (di cui sta scontando tutt'ora la pena), passandone 30 in isolamento, pur senza aver mai ucciso nessuno.
Charles Bronson è un uomo che aveva una vocazione, solo che non sapeva quale fosse, per poi scoprire di essere votato all'angheria e alla sopraffazione altrui.
Bronson è un personaggio, che, seppur esistente nella realtà, sembra così assurdo da non essere vero. E così che diventa nelle mani del danese Nicolas Winding Refn , che crea Bronson come se fosse una pantomima, un personaggio teatrale che trova la sua dimensione ideale in un palco/cella.
In soli 3'27'' iniziali, Charles Bronson ti offre il suo biglietto da visita, un bel knock out. L'essenza di Bronson si racchiude nell'intro del film: un uomo che come un bestia chiusa in gabbia si scaglia contro i secondini facendo esplodere la sua furia animalesca, in un'esplosione di odio senza senso.
Infrangendo la regola cinematografica di non guardare dritto la macchina da presa, Bronson fissa lo spettatore con la sua espressione luciferina, che fin dalla prima inquadratura, dice solo con un'occhiata che è un assoluto psicopatico felice di esserlo, uno sguardo che ti penetra fino in fondo come un pugno pronto a colpirti in faccia.
Occhi sbarrati, il suo corpo muscoloso e nudo che si dimena ricevendo e dando colpi, con quei movimenti portati all'eccesso che, nelle mani di Refn hanno un qualcosa di disturbante, ma dal punto di vista visivo sono intrisi di una bellezza a tratti lirica. Quel fisico sporco, esprime non solo furia, ma energia, l'essenza vitale di Bronson, colui che voleva diventare famoso per un motivo e che ha trovato nelle botte 15 minuti di celebrità e 35 anni di carcere.
Refn mette in scena un teatro dell'assurdo, con un Charles Bronson che è pronto per iniziare il suo show e da il meglio di sé lo da proprio davanti a un ipotetico pubblico.
Bronson è uno, nessuno e centomila, nella sua dimensione di commediante stravagante, facendo diventare la violenza parte integrante di questa sorta di teatro grottesco che è la sua vita.
Così volutamente sopra le righe, recita la sua parte alla perfezione in un copione perfetto scandito in altrettanti atti perfetti: violenza-carcere-isolamento-altro carcere.
La gattabuita diventa la sua dimensione naturale e ne gira così tanti da sembrare un turista che testa vari alberghi prima di trovare la sua stanza ideale, arrivando poi a soggiornare in manicomio.
Bronson viene catapultato in un luogo dove svuotato della sua indole aggressiva, non esiste più, non può vivere perché il suo io sadico, poiché viene bloccato, finendo per muoversi come uno zombie sulle note di It's a Sin dei Pet Shop Boys, in una stanza che ricorda vagamente il set/villaggio di Dogville del conterraneo Lars Von Trier.
E nel monologo più bello, Bronson rivendica il suo "diritto" alla galera, chiedendo a gran voce la sua "stanza d'albergo", cantando da consumato one man show di fronte allo spettatore che lo applaude.
Passato alla storia come il detenuto più costoso della storia dell'Inghilterra, Bronson viene rilasciato dopo 26 anni di isolamento.
E se Michael Peterson viene messo da parte per far nascere Charles Bronson, assumendo la sua nuova identità da libero cittadino, in questo frangente manca di mordente, e il film perde ritmo nella dimensione "umana" del personaggio. E se il suo rientro a casa assomiglia tanto al ritorno in famiglia di un certo Alexander De Large protagonista di quell' Arancia Meccanica che fece scandalizzare l'Inghilterra, Bronson è un uomo in cui cerca la propria identità nella violenza e l'uso che ne fa è l'esternazione del suo essere. E di conseguenza il carcere chiama ancora. Questa volta per sempre.
Se la prima parte del film è volutamente grottesca e, seppur intrisa di virulenza ha un un certo (e malsano) sense of humor (nulla a che vedere con l'uso che ne fa Tarantino, che si diverte giocandoci fino a farle perdere ogni significato), Refn conferisce bellezza nel brutto della sopraffazione, mentre la seconda parte è priva di verve e coinvolge meno, proprio perché la normalità e un contesto ordinario non fanno parte di Bronson.
Il punto di forza del film risiede provo nell'estetica: Refn usa la violenza portandola al limite dell'irreale in modo da risultare disturbante e a tratti affascinante, con quei rallenty che ne amplificano l'eccesso, con il corpo (spesso) nudo di Bronson che come in un danza luciferina esprime la sua voglia di contatto fisico doloroso, con i lividi sul volt e il sangue che imbratta la pelle.
Nicolas Vinding Refn ha un gusto visivo davvero notevole coniugato con l'ottimo utilizzo della musica, riuscendo a rendere la brutalità come personaggio integrante della storia e del personaggio di Michael Peter alias Charles Bronson, a cui Tom Hardy fa gravare tutto il peso del film sul suo fisico. E lo fa con grande bravura.
Cosa fare quando un uomo ha bisogno dell'impetuosità sfrenata per sentirsi vivo e avere una ragione per stare in un mondo forse meno salubre di lui? Ai posteri l'ardua sentenza: Charles Bronson è ancora in cella e il suo soggiorno in albergo è a tempo indeterminato.
A.M.
Grottesco, divertente, visivamente splendido e con un Hardy eccellente. 7/8 :)
RispondiEliminaHardy è fenomenale! Non gli ho dato 7/8 perché perde un po' nella seconda parte, però nel complesso è un bel film!
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