martedì 18 febbraio 2014

RECENSIONE: 12 anni schiavo






Titolo: 12 anni schiavo
Titolo originale: 12 Years a Slave
USA, 2013
Cast: Chiwetel Ejofor,  Michael Fassbender, Lupita Nyong'o.
Sceneggiatura: John Ridley
Regia: Steve McQueen
Durata: 134'


La vera storia di Solomon Northup (Chiwetel Ejofor) uomo nato libero nell'America schiavista, con un inganno viene rapito e reso schiavo per 12 anni in una piantagione di cotone. Grazie all'abolizionista Samuel Bass (Brad Pitt) tornerà alla libertà non prima di aver passato un'odissea sotto le angherie di Edwin Epps (Michael Fassbender).
Dopo Lincoln di Steven Spielberg, Django Unchained di Quentin Tarantino e The Butler di Lee Daniels, si chiude il cerchio con 12 anni schiavo del britannico Steve McQueen, un ideale pezzo mancante per completare un puzzle che raffigura l'immagine della schiavitù americana.
Se infatti la pellicola di Spielberg affrontava l’abolizione della schiavitù concentrandosi esclusivamente sulla figura del presidente Abrham Lincoln, la visione di Tarantino sembrava una ideale (e idealistica) resa dei conti di un uomo che diventa libero e lotta per mantenere la propria libertà, mentre la pellicola di Lee Daniels parte dalla schiavitù per poi raccontare le lotte degli afroamericani nel corso degli anni; la prospettiva di Steve McQueen scava ancora più a fondo nel cuore della schiavitù americana, una ferita evidentemente ancora aperta e poco trattata dal punto di vista cinematografico.
McQueen non fa un semplice biopic né tanto meno firma un “j’accuse” contro gli americani, ma ha scelto la storia esemplare di Solomon Northup per raccontare la parabola di un uomo libero che tramite l’inganno ha perso la sua libertà e lotta strenuamente per riaverla.
Attraverso la discesa negli inferi di Solomon rappresentata dalle immense piantagioni della Louisiana, McQueen offre una riflessione non solo storica, raccontando la storia di uno schiavo, ma anche di un sistema crudele di come un uomo prevarichi un altro uomo, concentrandosi sul rapporto tra Edwin Epps e Solomon Northup.
Solomon viene privato dei suoi averi, della sua famiglia, della sua origine e del suo nome, che diventa Pratt, viene venduto come un qualsiasi oggetto (a caro prezzo, perché è un “oggetto” che vale più degli altri), e sa che potrebbe essere ucciso da un momento all’altro quando “l’oggetto” in questione, ovvero la sua persona, non serve più.
L’unica arma di sopravvivenza è cercare di avere una ragione per vivere e rimanere aggrappati alla propria dignità, anche se viene duramente scalfita dalle minacce, dalle frustrate che lasciano solchi dolorosi e permanenti sulla pelle, dalla fatica che abbatte i muscoli, da un cappio al collo che rischia di strapparlo alla vita da un momento all’altro.
Come nei gironi infernali danteschi, Solomon entra in un viaggio crudele dove conosce uno schiavista “umano” rappresentato da William Ford (Benedict Cumberbatch) che lo tratta ancora come un essere umano nonostante sia complice della sua condizione di schiavitù, il carpentiere pazzo John Tibeats (Paul Dano) che lo considera una nullità da eliminare, e soprattutto la sua nemesi, Edwin Epps (Michael Fassbender) il suo nuovo padrone che cercherà di strappargli quel pezzo di dignità a cui rimane strenuamente attaccato.
Come l’immaginaria Candyland di Calvin Candie nome zuccherino che nasconde l’amarezza della fine della libertà, la piantagione di Edwin Epps sembra un piccolo paradiso terrestre che nasconde una prigione, che paradossalmente riesce a tenere rinchiuse le sue vittime in uno spazio aperto, da cui nessuno riesce a fuggire.
La bellezza idilliaca della piantagione mostrata da McQueen con il suo sguardo da artista, con i suoi campi lunghi, la cura per i particolari e l’estetica che ne deriva, viene brutalmente spezzata proprio come una frustrata dai soprusi e le angherie che Solomon e gli altri compagni di sventura subiscono quotidianamente.
Solomon assiste ogni giorno alla morte che colpisce uno di loro ucciso dalla fatica, assiste alle ripetute violenze perpetrate alle donne, in particolare a Pastey (un’intensa e sofferta Lupita Nion'go), la preferita di Edwin Epps e la più odiata dalla moglie Mary (Sarah Paulson), che umilia e rovina la sua bellezza ferendola sul volto, assiste allo strazio di una madre a cui vengono strappati i propri figli, vivendo in uno stato di costante minaccia.
Ferite che lacerano la carne e l’anima, che arrivano ad annichilire e a vedere la violenza come una parte della quotidianità, rimanendo ignorata. Così come viene ignorata la sofferenza di Solomon appeso a un albero, così come si ignorano le urla di dolore di Patsey, così come ingnorano l’ennesimo corpo da seppellire.
Solomon resiste, ma piano piano rimane inerme perché non può fare nulla se non resistere anche se le sue speranze vanno costantemente in fumo, come la lettera di aiuto che brucia Solomon, che diventa cenere e con essa le speranze di fuggire.
Solomon resiste anche se ormai i ricordi della sua famiglia (mostrati i flashback) si fanno sempre più flebili, arrivando a distruggere il suo amato violino, perdendo lentamente la sua battaglia per mantenere la propria identità.
Ma nell'odissea di Solomon c'è anche la speranza incarnata dal canadese Bass che lo salva e lo riporta alla normalità costituita dalla sua famiglia.
McQueen non crea una partita dove ci sono buoni e cattivi, ma con distacco racconta un evento storico vergognoso che fa parte del DNA degli Stati Uniti.
E lo fa con uno stile registico impeccabile con grande cura nei particolari, con i suoi “scatti” di montaggio alternati con la stasi dei campi lunghi, le carrellate e i primi piani delle lacrime di Solomon.
Steve McQueen dirige il tutto abilmente in modo impeccabile, così come impeccabili sono le performance di Ejofor, che riesce a rappresentare il dolore e lo sconforto solo con uno sguardo, il suo attore feticcio Michael Fassbender che non si limita a creare un Edwin Epps psicopatico e odioso, e soprattutto Lupita Nion'go così brava nel rappresentare la sofferenza di un corpo femminile straziato.
12 anni schiavo è un film che rimane impresso più di un capitolo di storia, che una volta letto si dimentica in fretta.

Voto: 8

7 commenti:

  1. Gran film davvero.
    Il migliore di McQueen.

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    1. Io Hunger non l'ho ancora visto, ma Shame mi era molto piaciuto. Chissà se vincerà l'Oscar!

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  2. Film pessimo, di un regista già ampiamente sopravvalutato in "Shame", ma qui addirittura glorificato senza alcuna ragione al mondo. Noia, noia, noia, e cliché a pioggia, per raccontare una storia che in sé sarebbe tutt'altro che noiosa. Unica parte guardabile, la prima mezz'ora, fino all'arrivo nella piantagione. Grottesco il ritorno a casa con la famigliola schierata come i domestici di una casa padronale. Risibile la nomination all'Oscar della negretta dal nome impronunciabile, per una performance a dir poco modesta - non fa che frignare!

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    1. La tipa che frigna (beh, anche io frignerei per ore se mi frustassero di continuo) si è beccata ieri un Oscar. Comunque peccato che non ti piacciano i film di Steve McQueen!

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  3. "così brava nel rappresentare la sofferenza di un corpo femminile straziato..." awwwww, come on, give us a BREAK!

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  4. Mangia un Kit Kat se vuoi un break :-p

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  5. P.s.mi piacerebbe conoscere il mio nuovo fan! ;-)

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