giovedì 30 marzo 2017

CULT MOVIE: I tre volti della paura (Black Sabbath)



Titolo: I tre volti della paura
Italia, 1963
Cast: Boris Karloff, Mark Damon, Michèle Mercier, Milly Monti.
Sceneggiatura: Marcello Fondato, Alberto Bevilacqua, Mario Bava
Regia: Mario Bava
Durata: 92'



Cosa hanno in comune Guy De Maupassant, LevTolstoj e Anton Checov? La capacità di saper raccontare le paure dell’animo umano tra realtà e fantasia. E nellemani di Mario Bava diventano uno strumento per suscitare terrore e inquietudine.
Una donna elegante viene assillata in continuazione da telefonate anonime. Il suo aguzzino la desidera, ma al tempo stesso la vuole uccidere. E se fosse il suo ex amante scappato di prigione?
Rosy ad un tratto si sente prigioniera del luogo più sicuro al mondo: la propria casa. Cerca di bloccare la porta, spegne le luci per far finta di non essere in casa, ma poi le riaccende per sentirsi più tranquilla. Ma nel silenzio più assoluto ecco che il telefono suona di nuovo, con una voce sempre più minacciosa. L’unica soluzione è chiamare la sua migliore amica Mary, con la quale ha un rapporto particolare che va al di là della semplice amicizia, interrotta proprio per volere del suo ex amante, ora fuggitivo.
Rosy sembra tranquilla, ma il colpo di scena è dietro l’angolo. ..
Il telefono è un sottile filo di erotismo che lega le due protagoniste viene legato con la suspence e il terrore di una donna indifesa che non sa come difendersi da una minaccia a lei sconosciuta. Suspence con una scena che sembra omaggiare Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock, La telefonata è un episodio girato con mestiere ed elegante, utilizzando con efficacia la musica e gli effetti sonori (lo squillo del telefono, che ha la funzione di una chiamata della morte).
Bava ha la bravura di far entrare l’elemento horror in un ambiente domestico, dove una donna sola si sente all’improvviso in trappola, come un topolino in una gabbia. Trasformando a sua volta il focolare domestico in quattro mura dove non si ci si può sentire più al sicuro.
Successivamente Bava abbandona l’ambiente contemporaneo borghese per introdurre lo spettatore in un paese sperduto, dove incombe una minaccia. E qui dimostra di sapersela cavare alla grande negli spazi aperti, dove la foresta innevata è un ricettacolo di oscuri presagi di morte.
Un giovane cerca ristoro presso una famiglia, che attende con ansia il ritorno del capo famiglia. Ma leggenda narra che se ritorna dopo 5 giorni, potrebbe trasformarsi in un Wurdalak, un vampiro e uccidere le persone che ama. Nulla promette qualcosa di buono: il cane non riconosce più il suo padrone di casa (Boris Karloff), ululando incessantemente. E se fosse un Vurdulak? Il Wurdalak è un vampiro, e come tutti i vampiri è a caccia di sangue. E se le prede fossero la sua stessa famiglia?
Bava introduce il dubbio nei membri della famiglia, divisi tra la necessità di difendersi da un (possibile) vampiro, e credere ciecamente nella “bontà” di un padre di famiglia. Ma il seme del male è entrato e piano piano viene a insinuarsi nella famiglia. Bava getta i suoi personaggi nell’incubo, che nasce nel nucleo familiare: e se nel primo episodio rendeva la casa come il luogo meno sicuro in assoluto, in questo secondo episodio mette in guardia lo spettatore nei pericoli insiti nella famiglia stessa, il nucleo dove si è protetti in assoluto. E getta anche un alone di inettitudine nel giovane forestiero, che dovrebbe essere il principe che salva la bella Svenka dalla furia del WurdAlak, ma che alla fine è capace solo di fuggire, mettendo molte ombre sull’eroe che dovrebbe essere senza macchia e senza paura.
I Wurdalak rappresenta l’escursus nel classico del cinema horror con la classica storia di vampiri. Nelle mani di Bava però è una parabola sulla morte che è più forte dell’amore. Amore che non riesce a sconfiggere la morte.
Mai cedere alla cupidigia. Lo scopre a sue spese un’infermiera (Milly Monti) che deve vestire il cadavere di una medium e vede quell’anello luccicante che, come una gazza ladra, attira la sua curiosità. Come luccica quell’anello, sembra sussurrarle “prendimi” e lei lo prende, come ricompensa per il lavoro svolto. Ma il cadavere dell’anziana medium la fissa con quegli occhi vitrei e freddi resi tali dalla morte, con gli occhi spalancati e la bocca storta. E la punisce. Comincia a infastidire l’infermiera con una gocci d’acqua. Che scende, scende dando fastidio. Ma l’infermiera non vuole rinunciare all’anello. Così il fantasma bussa alla sua porta per rivendicare ciò che suo e punirla. Perché quell’anello è maledetto e prendendolo ha accolto la sua maledizione. Se vuoi prendere qualcosa che non ti appartiene, devi pagarne le conseguenze. Ma non si impara mai la lezione e l’anello finisce in mano a qualcun altro colto da altrettanta cupidigia. E la goccia d’acqua torna a tormentare.
La goccia d’acqua è il classico episodio dei fantasmi, tramutandolo però in una parabola del “non desiderare la roba d’altri”, dove l’avarizia e la cupidigia vengono puniti dallo spirito malvagio. Bava ha la bravura di usare il sonoro come elemento di tensione (il rumore della goccia che scende) e l’uso della fotografia per enfatizzare l’aspetto mostruoso della medium deceduta. Il tutto con pochi mezzi a disposizione.
Uh, grande errore considerare Mario Bava un autore horror di serie B. Grande errore. Il fatto che sapesse fare film in economia, rispetto alla raffinatezza stilistica del Dario Argento dei tempi d’oro, lo avvicina più a Roger Corman che all’autore di Profondo rosso. Che, per inciso, deve tutto al maestro del brivido all’italiana. Anche perché Bava aveva sì pochi mezzi a disposizione, ma possedeva una grande maestria nel saperli usare, come una 'banale' carrellata che si avvicina lentamente al telefono, che diventa un'arma per spaventare a morte la bellissima Rosy nell'episodio La Telefonata.
I tre volti della paura è un classico del cinema horror, dove Mario Bava mostra la sua maestria nel girare in spazi chiusi, mostrando una tecnica registica fluida e perfetta. Al di là delle storie del terrore fatte da pazzi, vampiri e fantasmi, la capacità di Bava sta nel creare la giusta atmosfera con le luci, il senso di claustrofobia che attanaglia nel primo episodio, gli inseguimenti nei boschi a cavallo che tengono col fiato sospeso (di cui Tim Burton è debitore nel suo splendido Sleepy Hollow), e l’uso del sonoro con quel fastidioso ticchettio di una goccia d’acqua; per non parlare di quel volto deformato dalla morte ancora in grado di incutere timore a distanza di cinquanta anni.
Tutti i grandi registi (e anche un “certo” Ozzy Osbourne) gli sono debitori: da Dario Argento a Quentin Tarantino. Ma la bravura di giocare con il mezzo cinematografico con leggerezza e bravura spetta a Bava, che svela i trucchetti alla fine del film, con il mitico Boris Karloff che galoppa su un cavallo finto, con cinque membri della troupe che corrono come forsennati agitando delle felci. E noi che credevamo fosse una vera cavalcata in un bosco terrificante.Chapeau.

Voto: 8

4 commenti:

  1. Filmone mitico che in pochi conoscono.
    Brava ad averlo recuperato! :)

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    1. Gran filmone sì! E chissà se Ozzy Osbourne ha visto questo film prendendo in prestito il titolo per dare un nome alla sua ormai mitica band! ;)

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  2. Di questo film avevo visto su Fuori Orario (mitico Ghezzi!!!) giusto il segmento La goccia d'acqua, elegante ed inquietante da morire. Gli altri due "pezzi" li ho visti in seguito ma non mi sono rimasti impressi come La goccia d'acqua, mi sa che dovrò trovare il tempo di recuperare tutto :)

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    1. Ghezzi è stato responsabile delle mie notti insonni tra venerdì e domenica, metà videoteca la devo a lui! In realtà il mio preferito è Il telefono, ma anche gli altri sono fenomenali!

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