domenica 13 settembre 2020

RECENSIONE: Threads




Titolo: Threads

Id, Italia/GB 2011

Cast: Luca e Gabriele Stifani.

Sceneggiatura: Luca e Gabriele Stifani.

Regia: Luca e Gabriele Stifani (Twins Stifani).

Durata: 3'58''



Nessun posto è come casa. Ovunque tu vada, la tua casa è l'unico posto che ti fa sentire al sicuro, un punto di riferimento forte come una roccia.

Come anime erranti, si parte in cerca di nuovi posti da scoprire, nuove persone da conoscere, assorbendo la loro cultura, facendo tuo quel pezzetto di vita a te donato, donando a tua volta un frammento della tua.

Giappone, Belgio, Italia. Differenti posti, continenti, differenti esperienze che accrescono il bagaglio culturale e lavorativo. Cambiano i luoghi, cambia la cultura, ma i sentimenti sono universali, e un matrimonio celebrato in Giappone trasuda dello stesso amore che c'è in Italia. Le esperienze lavorative sono molteplici, ma l'impegno e la passione è la stessa.

Le luci della metropoli abbagliano quanto la bellezza di una farfalla che si poggia sulla propria madre, meravigliosa come un fiore. 

Un bambino che beve un succo di frutta, un sorriso, la freschezza dell'acqua del mare che bagna i tuoi piedi. Momenti di vita quotidiana, apparentemente banali come cogliere l'uva, ma che in realtà nascondono attimi di bellezza incredibile.

Eppure ci sono dei fili  invisibili che ti legano alla tua terra di origine, una 'coperta di Linus' che si porta sempre appresso che ti fa stare bene, che ti coccola silenziosamente dandoti la forza di stare lontani dai propri cari per poter proseguire il proprio cammino di crescita professionale e personale.

Threads è un corto diretto da Luca e Gabriele Stifani, gemelli salentini e cittadini del mondo cresciuti a pane e cinema sin da bambini. 

Una piccola 'lettera d'amore' alle proprie radici, a tratti magico e dal dolce profumo di nostalgia. 

Come un film muto, le immagini parlano da sole facendoti andare in un tumulto emotivo. Una burrasca che travolge i tuoi sentimenti rivoltandoli e scuotendoli. 

Perché senza quel filo invisible - le tue radici - puoi andare in giro per il mondo, ma saresti solo un'anima errante alla ricerca di qualcosa che non può sopperire all'amore della tua famiglia e alla sicurezza emotiva di quel posto chiamato casa. 

Il mondo è la nostra ostrica. Ma nessun posto è come casa. 


Voto: 8



Il corto è disponibile su Vimeo: https://vimeo.com/26007148




giovedì 20 agosto 2020

H.P. Lovecraft Day: Re-Animator




Premessa: Ho appena visto Re-Animator e sono in pieno WTF. Ho un po' il blocco dello scrittore, indi per cui mi destreggerò tra il tono cazzaro e serio nella speranza di trovare l'ispirazione e non far ribaltare nella tomba H.P. Lovecraft, che oggi avrebbe compiuto 130 e mi avrebbe mandato a quel paese di sicuro.


Titolo: Re-Animator
Cast:  Jeffrey Combs, Barbara Crampton, Bruce Abbott
Sceneggiatura: Stuart Gordon 
Regia: Stuart Gordon
Durata: 85'






Cazzeggio moment. Mhm mhm per me il numero uno.

Ola-la-i-ù nella Svizzera plan plan plan c'è uno studente di medicina di nome Herbert West (Jeffrey Combs) un po' pazzerellone che tanto bene di capa non sta. Ha appena accoppato il suo mentore, il dottor Hans Gruber (l'altro verrà messo K.O. da John Mc Claine perché lui ha una machine gun e tu no. Ho-ho-ho). E invece no! Lui voleva ridargli la vita! E invece gli fece venire un mal di testa da fargli schizzare gli occhi dalle orbite. Provaci ancora Herbie. 
Ed Herbert ci riprova Miskatonic University di Arkham, dove fa la conoscenza dello studente modello Dan Cain, anche lui in fissa con il rifiuto dell'al di là, preferendo l'al di quà con la bella figlia del rettore con cui ci fa anche all'amore. Herbert dopo un momento di puro celodurismo con il professore emerito str... Dr. Hill (David Gale) durante una lezione, diventa coinquilino di Dan e usa lo scantinato per i suoi folli esperimenti. Beh, sempre meglio che tenerti occupato la cucina tutto il giorno o a fare Covid party inda house con tutta la famiglia in nome dell'assembramento più spietato. Ma tanto non ce n'è di Coviddi.
La fidanzata di Cain, Megan (Barbara Crampton) capisce che è fuori come un balcone, ma Cain ne rimane affascinato da volerselo prendere in casa come nuovo inquilino.
Ma come tutti i coinquilini spina nel culo che si rispettano, nascono i primi problemi quando il gatto Rufus finisce nel frigo accoppato e parecchio congelato. Ghe pensi mi! Fa eco Herbie ed ecco che il gatto rianimato diventa figlio del demonio. Manco i gatti di mamma si incazzano così perché ha comprato le crocchette del discount invece che della Purina One per gatti morti da rianimare.
Herbert sta facendo degli esperimenti per riportare in vita i morti, e come un novello Frankestein fa dei danni incredibili all'interno dell'ospedale dove a farne le spese sono Dan che perde la borsa di studio, il rettore e padre di Megan che finisce non morto e lobotomizzato e lo scienziato che perde letteralmente la testa per Megan e per gli esperimenti di Herbert.
E in un tripudio di zombie rianimati a cazzo di cane, budella, trippa e cervella, Dan cerca di scoprire se si può far ritornare di quà la gente finita nell'al di là.

Recensione seria.

Il delirio di onnipotenza ha sempre affascinato gli scrittori di fantascienza e di horror. Due generi che permettono di giocare a Dio e a voler sfidare a tutti i costi la morte. 
Non tutti forse mirano all'immortalità, ma chi di noi non vorrebbe che un proprio caro o il nostro animale da compagnia vivesse il più a lungo possibile? Se fosse per sempre ancora meglio!
Perché  la morte fa paura, e il fatto di negarla è senza dubbio un modo per esorcizzare tale senso di angoscia.
Il cuore smette di battere, il cervello è l'ultimo organo a staccare la spina (12 minuti secondo la scienza) e poi chissà cosa c'è dopo. Gli egizi nell'antichità credevano a una seconda vita, gli atei credono al fatto che una volta finiti sotto terra si diventi cibo per i vermi. Punti di vista.
Per gli scrittori di horror invece il concetto di morte sembra non esistere proprio: e allora o ci sono i vampiri, o ci sono gli scienziati pazzi che rifiutano in pieno il fatto che la vita ha un suo 'arco narrativo' destinato a finire in maniera naturale o meno.
E H.P. Lovecraft con Herbert West, rianimatore è di questa scuola, creando con Herbert West lo scienziato ovviamente pazzo che gioca al Creatore. Ma che finisce per creare mostri.
Perché per quanto tu possa essere credente, agnostico, ateo, a Dio non gliela fai e più che mostri non puoi generare perché la natura ti punisce. 
Re-Animator prende il canovaccio di Lovecraft mantenendo intatto il rapporto tra Herbert e Cain e il delirio di onnipotenza del dottor che è ancora più folle e più stronzo dello studente che gioca al padre eterno. La genialata di Stuart Gordon è nel aver modernizzato la storia ambientandola agli anni Ottanta, in modo da poter mettere due elementi chiave del genere horror dell'epoca: 1) effetti speciali in pieno grand guignol ancora in grado di essere super vomitosi (te posseno per il gatto nel frigo). 2) le sise - per gentile concessione di Barbara Crampton che è l'oggetto del desiderio del Dr. Hill, facendola diventare damsel in distress prima, e nuova ossessione scientifica di Cain dopo 3) una buona dose di trash e senso dell'umorismo, senza prendersi sul serio.
35 anni dopo Re-Animator conserva la sua verve splatters ed è ancora un film horror godereccio.
Amanti dei gatti astenersi.

Voto: 7





martedì 28 luglio 2020

NOTTE HORROR 2020: Tutti i colori del buio

E come ogni estate, la notte horror è arrivata! Ogni martedì alle ore 21 e 23 c'è l'immancabile appuntamento con un horror pronto a farvi saltare sulla poltrona! Alle 21 era il momento di Cooking Movies con L'armata delle tenebre, mentre alle 23 tocca a me con Tutti i colori del buio con la Edwigiona (inter)nazionale pronta a mostrare le sise pure in questo horror/noir italo spagnolo. 



Zio Tibia is back!




Titolo: Tutti i colori del buio
Id, Italia/Spagna, 1972

Cast; Edwidge Fenech, Ivan Rasimov, Susan Scott
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi e Sauro Scavolini.
Regia: Sergio Martino
Durata: 102'


I sogni servono per comunicarci qualcosa. Si liberano nell'inconscio mentre dormiamo e non possiamo controllarli. Ci sono sogni belli, sogni che ti fanno svegliare con il sorriso sulle labbra e altri che non lasciano traccia nella memoria appena si aprono gli occhi. 
Ci sono però anche anche sogni orribili. Incubi che ti fanno sobbalzare nel letto, quando riesci a dormire. Apparentemente indecifrabili, nascondono multipli significati. 
Questi sogni, o meglio incubi, cercano di comunicare qualcosa a Jane (Edwidge Fenech), che ha appena perso un bambino dopo un incidente. Jane ha un crollo nervoso e i sogni divorano ogni notte il suo inconscio. Un uomo dagli occhi di ghiaccio (Ivan Rassimov) la segue, la osserva da lontano. Lei si sente in trappola, forse pensa di essere impazzita. Ma se quest'uomo fosse reale? 
Su consiglio della sorella Barbara (Susan Scott), si affida alle cure del dottor Burton (George Rigaud), sperando che possa aiutarla a liberarla dal trauma della morte della madre a cui ha assistito in tenera età.
Gli incubi non finiscono, e Jane cercando di sfuggire all'uomo che la insegue, forse in preda all'allucinazione, si lascia coinvolgere dalla vicina Mary e finisce in un sabbah. Jane pensa di essere libera, ma finisce per vivere sospesa tra la realtà e il mondo onirico. Ed entrambi i mondi diventano fonte di terrore per lei.
Onirico o reale, la paura è sempre paura. 
Ti prende, ti attanaglia, ti toglie ogni raziocinio. Come una damsel in distress, Jane è in preda del 'bruto' e deve essere salvata dall'eroe di turno (in questo caso il marito). 
Quando l'irrazionalità prende il sopravvento, l'unica è scappare, perché è così indifesa da potersi proteggere da sola.
E Jane non ci riesce, scappa, scappa e finisce prima nelle mani della setta e poi di eventi che la fanno quasi impazzire, con un costante ribaltamento della realtà che la rende inerme.
E questa mancanza di coraggio che dovrebbe far storcere il naso (si tratta pur sempre di un film del 1972), diventa il punto di forza di questo horror noir.
A differenza delle future 'scream queen' come Laurie Strode di Halloween o Nancy di Nightmare dove combattono non solo con il mostro di turno, ma anche con i propri demoni, la Jane di Tutti i colori del buio è un omaggio alla ragazza da salvare dall'essere malvagio. 
Come Fay Wrey di King Kong, - così piccina nelle mani del mostro, non può fare altro che accettare il suo (al momento ineluttabile) destino e farsi portare sull'Empire State Building - Jane accetta il suo partecipando ai riti satanici.
Perché non c'è forza che tenga quando la razionalità viene a mancare. E quando viene meno, è impossibile pensare a un modo per difendersi. Il panico nel non riuscire ad aprire la porta, l'ascensore che è guasto e non ti fa salire in casa più in fretta. E quegli occhi di ghiaccio che ti seguono e ti fissano sono lì. Sempre all'erta, mai un attimo di respiro. E allora l'unica è scappare. 
Ma non si può fuggire per sempre, e a volte qualcuno che venga a salvarti è ben accetto.
Martino lavora sui nervi dello spettatore con atmosfere inquietanti, che mettono ansia. Il cuore batte a mille come il cuore di Jane, ti fa venire voglia di scappare dalla paura di essere raggiunta da quell'essere ambiguo dagli occhi di ghiaccio. 
Sergio Martino confeziona un trhiller di buona fattura, con una Edwige Fenech in una parte inusuale per il pubblico italiano che la conosce più per i suoi ruoli divertenti e scollacciati.
La tensione scorre quasi fino all'ultimo grazie alle belle atmosfere londinesi (anche se in realtà irlandesi, essendo il film girato gran parte a Dublino).
Quasi perché lo 'spiegone' tende un po' a rassicurarci, sprecando però l'occasione di un McGuffin hitchcockiano che avrebbe dato alla pellicola quel tocco di noir in più alla pellicola.
Dopo quasi Cinquant'anni, Tutti i colori del buio sa ancora far paura. 
Forse perché nel 2020 una donna, per quanto possa essere forte e cazzuta, corre sempre il rischio di diventare malauguratamente una damsel in distress? 

Voto: 7,5

Le prossime nottate horror:





martedì 7 luglio 2020

GOODBYE: Addio a Ennio Morricone



Ennio Morricone (1928 - 2020)



Nell'amore come nell'arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l'intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata.

giovedì 7 maggio 2020

Vade retro Virus! - La notte ha divorato il mondo

La pandemia non ferma la gang di cinebloggers guidata da Pietro Sabatelli, ha deciso di esorcizzare le ansie da quarantena con la giornata 'Virus, non ti temo!'. Per l'occasione, Director's cult ha scelto un film horror francese, La notte ha divorato il mondo.


 Pandemia, pussa via!


Titolo: La notte ha divorato il mondo
Titolo originale: La nuit a dévoré le monde
Francia, 2018
Cast: Anders Daniel Lies,Golshifteh Farahani, Denis Levant, Sigrid Bouaziz,
Sceneggiatura: Jérémie Guez, Guillaume Lemans, Dominique Rocher
Regia: Dominique Rocher
Durata: 93'

Chi è incapace di vivere in società, o non ne ha bisogno perché è sufficiente a se stesso, deve essere una bestia o un dio. (Aristotele)
Secondo il filosofo Aristotele, l'uomo è un animale sociale, di conseguenza non è capace di vivere isolato, avendo bisogno di un contatto umano per poter sopravvivere nella società.
Così l'uomo socializza attraverso attività ludiche come una festa, in modo da poter interagire con il prossimo. Anche se un po' controvoglia, come accade a Sam (Anders Daniel Lies, un musicista che è finito in un party organizzato dalla sua ex fidanzata Fanny (Sigrid Bouaziz). In realtà lo scopo della sua visita non è tanto nell'adempiere funzioni di socializzazione, ma per recuperare delle audiocassette che aveva lasciato da lei quando stavano ancora insieme. Riesce a recuperarle, ma finisce per addormentarsi nella camera di Fanny.
Il giorno dopo, al suo risveglio, scopre con orrore che è avvenuta una mattanza e che la popolazione parigina si è trasformata in una massa di zombie. Non si sa cosa abbia portato questa strage, fatto sta che Sam sembra sia l'unico sopravvissuto (anche perché i pochi superstiti sono stati uccisi mentre cercavano di fuggire).
Nessun al mondo è in grado di dirti perché esisti, ma visto che sei qui, lavora per dare un senso alla tua esistenza. (Soren Kierkegaard)
Sam sembra un introverso,ma è pur sempre un animale sociale. E se alla festa della sua ex si sente come un pesce fuor d'acqua e vuole solo recuperare le sue audiocassette, la solitudine e l'isolamento comincia a minare la sua salute non solo fisica, ma anche mentale.
Perché l'essere umano deve dare un senso a ciò che fa. E quando la sua routine si sgretola, l'uomo brancola nel buio e si perde in un bicchiere d'acqua. Così Sam si ritrova solo, in un appartamento che non è suo e dopo aver perlustrato tutto il condominio alla ricerca di cibo per sopravvivere, non sa come passare il tempo. 
E quando non puoi essere produttivo, avere la tua routine, la tua salute mentale rischia di vacillare. E così Sam, se all'inizio cerca di essere attivo correndo per l'appartamento, improvvisando musica (è un musicista, quindi tende a essere produttivo e a ingegnarsi con ciò che l'appartamento gli può offrire), piano piano è vittima del tedio e della costante tempo che si dilata, 'si disperde' e fa sembrare un'ora una eternità.
Sam brama un contatto sociale al punto da rischiare la vita per prendere un gatto randagio e instaura una sorta di amicizia con Alfred (Denis Levant), uno zombie apparentemente innocuo. 
Però non è il solo sopravvissuto, c'è anche Sarah (Golshifteh Farahani). Sarah sembra più equilibrata e vuole scappare dal condominio, proprio perché ne va' della propria salute mentale.
Non è sufficiente possedere una buona mente. L'importante è saperla usare nel modo giusto (Cartesio)
Purtroppo per Sam, la clausura forzata e la lotta contro gli zombie mina la sua buona mente, arrivando ad avere allucinazioni. Chi lo sa se Sarah e Alfred sono frutto della sua immaginazione. 
Lo spirito di sopravvivenza però ha il sopravvento e nonostante tutto, riesce ad utilizzarla per poter scappare da questi zombie attratti dal rumore. E se la sua mente ha vacillato al punto da attirare i non morti di proposito e decidere di compiere un gesto azzardato, Sam riesce a reagire e a pensare che non tutto è perduto è che un modo per rivivere una vita normale (forse) c'è.
Che dire, La notte ha divorato il mondo è un film che non può essere considerato profetico, ma che in tempi di pandemia è incredibilmente affine con questa situazione.
Ci dicono di stare a casa per salvaguardare la nostra incolumità. Il male è là fuori e solo le 4 mura di casa possono proteggersi. Non ce lo dicono solo gli esperti e il governo, ma anche gli horror ce lo dicono da sempre. In tutti i film di zombies, a cominciare dal mitico La notte dei morti viventi, la casa è l'unico posto dove possiamo difenderci da qualcosa di oscuro che minaccia la nostra incolumità.
Noi esseri umani poi, siamo un po' (tanto strani) perché ci lamentiamo dei ritmi convulsi della società, siamo iperattivi e poi ci perdiamo in un bicchiere d'acqua quando abbiamo finalmente l'opportunità di fermarci e anche, perché no, annoiarci. E invece usciamo fuori di testa, dobbiamo essere sempre produttivi e non staccare mai la spina.
Dominique Rocher non è certo Nostradamus, ma il suo film è decisamente è azzeccatissimo con i tempi che corrono.
Se il tema zombie non è nuovo e Rocher utilizza gli schemi del genere (e fin qui nulla di nuovo), comunque, ciò che rende interessante il suo film è non tanto il cercare di non farsi ammazzare dai morti viventi, ma come sopravvivere alla solitudine e a trovare un equilibrio quando le tue certezze vacillano, se non proprio vanno a farsi benedire.
Nel complesso, Sam non brilla per simpatia e alcuni tempi sono un po' troppo volutamente dilatati, ma nel complesso La notte ha mangiato il mondo è un ottimo horror movie che ci da' anche un po' di speranza. Non saremo rinchiusi per sempre in quattro mura, presto torneremo a vivere la nostra vita, riprendendola dove l'abbiamo rimasta.

Voto: 7

Hanno collaborato all'iniziativa: 



mercoledì 29 aprile 2020

CULT MOVIE: Psycho






Titolo: Psycho
USA, 1960
Cast: Janet Leigh, Anthony Perkins, John Gavin, Martin Balsam, Vera Miles.
Sceneggiatura: Joseph Stefano.
Regia: Alfred Hitchcock.
Durata: 104'


Essere infelici, odiare il proprio lavoro e la propria vita. Marion Crane (Janet Leigh) si sente così, segretaria insoddisfatta che sogna una vita migliore insieme al suo amante è una  segretaria Sam Loomis (John Gavin), con cui intrattiene una relazione amorosa fatta di incontri fugaci in un hotel. 
Cercare di cambiarla scegliendo una scorciatoia, che la porta però verso la strada sbagliata. Con una grossa somma di denaro rubato, Marion fugge dalla sua mediocre esistenza, arrivando a compiere il suo destino al Bates Motel di proprietà del mite Norman Bates (Anthony Perkins), giovane timido tiranneggiato dalla madre.
Alfred Hitchock con Psycho non realizzò solo il suo film di maggiore successo commerciale, ma anche un viaggio nell'oscurità, nei meandri nella debolezza, della deviazione umana, del vouyerismo e della sessualità, quando sul grande schermo vigeva il codice Hayes (codice di censura che cadrà a tutti gli effetti solo nel 1968), ovviamente mescolando le carte come solo lui sapeva fare.
Marion Crane è una donna insoddisfatta della propria esistenza, e cerca di fuggire da una realtà che ormai le risulta insopportabile. Nubile, intreccia una relazione clandestina fatta di incontri fugaci con un uomo in attesa di divorzio. Seduta sul letto semi svestita, in gonna e reggiseno, Marion Crane è una donna dalla prorompente sessualità, ma che sa far trasparire frustrazione e oppresione, e pensa che il denaro possa essere la chiave di accesso per avere una vita diversa. E se ne impossessa indebitamente per cambiare vita. 
Ma a Hitchcock ovviamente non interessa la parabola esistenziale di Marion Crane, il grande Hitch si "serve" di Marion Crane per arrivare a Norman Bates e al suo Bates Motel.
Norman il solitario e mite proprietario di un motel che ormai nessuno frequenta più da quando hanno cambiato il percorso dell'autostrada.
Norman  è una persona tranquilla, mite e gentile, vive con la madre invalida, donna gretta e bigotta che vieta al figlio di ospitare la giovane nella loro casa. Una donna troppo attraente, di una bellezza che colpisce Norman, uomo solitario che impaglia animali per avere una fittizia compagna. 
La sensualità di Marion disturba Norman, che la spia da un buco dietro un quadro, e disturba anche sua madre, che vede in lei un nemico per il figlio da eliminare. E così fa.
Sotto la doccia, Marion diventa la vittima della più famosa scena di omicidio della storia del cinema, per via della crudele madre.(ci arriverà il suo pupillo/fan Brian De Palma 28 anni dopo con Omicidio a luci rosse, che cita tra l'altro Omicidio perfetto del maestro inglese).
Marion finisce sepolta nel lago, ma non interessa sapere se il colpevole verrà arrestato o no. Lo spettatore lo sa chi ha ucciso Marion Crane è questo al buon Hitch basta. Ci saranno le sue ricerche, certo, ma  ciò che interessa sapere chi è Norman Bates. E perché la sua mammina cara, così cara non è.
Hitchock ama confondere e "accompagnare per mano" lo spettatore verso l'identificazione con Norman, persona così buona da sembrare a dir poco inquietante.
Chi è l'inquilino della casa desolata, e che rapporto ha con la madre? E' Norman a essere succube della madre, o la madre che non può vivere senza di lui?
Il migliore amico di un ragazzo è la propria madre. E questa frase raccoglie l'essenza del rapporto edipico che Norman ha sviluppato nei suoi confronti, donna che lo ha educato nella convinzione che ogni possibile ragazza rappresenti una minaccia, tutte malvage tranne lei. E Marion Crane lo rappresenta eccome questa tipologia femminile.
Hitchcock ci porta nei meandri della mente oscura di Norman, in un viaggio nelle deviazioni della mente umana, scoprendo piano piano le carte, e si scopre che Norman Bates e sua madre sono come un'unica entità, e l'arrivo inatteso di Marion Crane turba questa relazione esclusiva, diventandone vittima designata, inconsapevole di "essersi intromessa" nella vita di Norman.
Una vita in simbiosi che va difesa a costo della vita di Marion e del detective Arbogast (Martin Balsam), ingaggiato dalla sorella di lei, Lyla (Vera Miles), l'unica a scoprire la verità. Ma poco importa.
Nessuno è come sembra e solo gli specchi vedono il doppio di ogni individuo: lo specchietto retrovisore della macchina di Marion tradisce la colpevolezza del suo furto, così perfettamente celato dalla fuggiasca al poliziotto insospettito, lo specchio nella stanza da letto di Norman, che riflette o quasi il rapporto malato con la madre.
Ma non importa, perché il pubblico è attratto, spaventato, affascinato da Norman Bates, così buono da non nuocere nemmeno a una mosca. Come ci dimostra nell'ultima inquietante sequenza che ci regala il maestro del brivido.
Capolavoro noir venato di horror, vouyerismo, gotico e psicologia, Alfred Hitchcock ci regala un gioiello di suspence, e di perfezione tecnica, con quelle inquadrature ricche di immagini verticali e orizzontali, suggeriti dagli splendidi titoli di testa di Saul bass: dalla verticalità di una gru che taglia l'orizzonte della città in cui Marion si sente soffocare, o dall'orizzontalità delle persiane abbassate che nascondono i momenti passionali di Marion con Sam, il tutto arricchito dalle musiche di Bernard Hermann (celebre ormai il motivo della scena della doccia) e dalla bravura degli attori, con un Anthony Perkins così bravo nel recitare Norman da rimanere intrappolato nel personaggio nel corso della sua carriera.
Psycho è il capolavoro dell'io e del suo doppio, portandoci in un vortice di orrore e fascino senza fine, capace ancora dopo 53 anni di emozionare lo spettatore.

Voto: 9